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Discografie: Album by Album Radiohead

Si è parlato molto, forse anche troppo, riguardo alla modalità distributiva dell’ultima fatica dei Radiohead tramite download a libera offerta.

Si è scritto poco, decisamente molto poco, sulla qualità di un disco di livello assoluto, tra i migliori della band di Oxford. “In Rainbows” è la proposta di un gruppo capace di allargare orizzonti e spianare strade verso l’inedito. Un esempio per tantissime altre future realtà; un faro nella notte buia del pop attuale.

Ecco una piccola retrospettiva sui loro dischi in studio, quelli entrati nella leggenda moderna di una musica sempre più senza confini delineabili.

1. PABLO HONEY (1993)

Colin Greenwood e Thom Yorke s’incontrarono tra i banchi dell’Abingdon School ad Oxford verso la fine del 1982. Dopo un intero decennio passato tra sperimentazioni musicali d’ogni genere (punk, techno e quant’altro) riescono – insieme a Jonny Greenwood, Ed O'Brien e Phil Selway - a dar vita alla loro creatura definitiva: i Radiohead.

Grazie al fortunato singolo “Creep” (vero e proprio big-bang del gruppo) ottengono i primi consensi da parte di critica e pubblico e, sulla scia dell’entusiasmo, nel 1993 danno alle stampe il loro primo album.

Un debutto musicalmente acerbo ma che registrò ottimi riscontri commerciali grazie al singolo sopra citato e ad altri brani dal forte appeal emozionale come “You” e “Stop Whispering”. Canzoni dove affiorava l’urgenza espressiva di Yorke anche se il suono dela band non si differenziava molto dal panorama del pop britannico.

2. THE BENDS (1995)

Il 1994 fu un anno fondamentale. I Radiohead, oltre a starsene per lunghi tratti in studio a registrare, furono impegnati in un tour che toccò gran parte dell’Europa, l’America e il Giappone. La loro fama era dilagante e alla fine dell’anno pubblicarono un ep di otto tracce ("My Iron Lung"). Nel 1995 venne dato alle stampe il secondo, attesissimo, album.

“The Bends” non deluse e rappresentò un notevole passo in avanti, perché la band - forgiata dai molti live e dal duro lavoro in sala prove - raggiunse un’identità stilistica ben definita e riconoscibile. La voce di Yorke è luminosa e - a tratti - anche incredibilmente sofferta e profonda. Una serie decisiva di ottimi brani come “Fake Plastic Tree”, “The Bends” e il singolo “High and Dry” sottolinearono tutte le capacità timbrico/armoniche di un gruppo destinato ad entrare nella storia.

3. OK COMPUTER (1997)

Album fondamentale sia per i Radiohead che per la musica pop intera. I ragazzi, dopo ulteriori esperienze formative al fianco di artisti del calibro di Alanis Morissette e R.E.M., chiusero una prima fase di carriera e contemporaneamente aprirono il sipario su un nuovo segmento impregnato da sonorità più votate all’elettronica e allo sperimentalismo.

La fusione di stili e le infinite visioni di uno Yorke sempre più protagonista fecero di quest’album un esempio da seguire per numerosi altri gruppi.

Track d’infinita e mutevole bellezza come “Karma Police” e “Paranoid Android” ancora oggi rappresentano la forza dei Radiohead e di tutte le loro molteplici capacità di sviluppo sonoro.

Pochi sono i fan della prima ora a storcere il naso, moltissime sono le persone che incominciano a conoscere ed amare la band che, in quel preciso momento, si ritrovò di colpo sul tetto del Mondo.

4. KID A (2000)

I Radiohead si affacciano al nuovo millennio voltando pagina in maniera decisa e incontrovertibile.

“Kid A” è composto da dieci tracce fredde, malate e distorte. I ragazzi si allontanano dalle precedenti sonorità sposando le possibilità offerte dalle soluzioni elettroniche e riuscendo anche in un mirabile accostamento con suoni più classicheggianti. La voce di Yorke emette loops vorticosi che trascinano il suono verso un nuovo lido; una nuova prospettiva. Minimale e fascinosamente moderno, il disco farà discutere molto per la sua natura stilisticamente molto lontana dagli esordi e per il suo incedere rarefatto e buio.

Sarà comunque accolto da consensi su larga scala e verrà poi apprezzato e ben compreso solo in un momento successivo.

5. AMNESIAC (2001)

L’anno seguente è la volta di “Amnesiac”, un disco basato - come il precedente - su sonorità manipolate. Presenta sostanziali differenze da “Kid A” essendo – di fatto - il suo esatto contrario concettuale: algido e distaccato il primo, caldo e avvolgente il secondo.

Mentre “Kid A” è defilato e distante dagli accadimenti, il suo “gemello” è dentro il vorticoso accadere delle cose. Due album che derivano dalla medesima radice ma che si dipanano verso orizzonti opposti.

Nuova inconfutabile prova della capacità di plasmare materia sonora con infinita varietà di soluzioni.

I Radiohead spiazzano fan e critici con puntualità disarmante.

6. HAIL TO THE THIEF (2003)

“Hail To The Thief” conferma gli ottimi risultati di vendite dei suoi predecessori e chiude idealmente un’altra importante fase di carriera.

Non ci sono grandi novità rispetto ai precedenti lavori: chitarre distorte, beats elettronici e la voce di Yorke costantemente virata verso un’alienata sofferenza. Non ci sono singoli capaci di far tremare i polsi ma solo buone canzoni come “There There” e “2+2=5”.

Siamo quindi alla routine, situazione nella quale il gruppo non si era mai trovato e che porterà ad una lunga pausa (tranne che per il chitarrista Jonny Greenwood e per Thom Yorke che nel frattempo si dedicheranno ai loro lavori solisti).

7. IN RAINBOWS (2007)

L’abum che non esiste, almeno come supporto fisico. Il disco che con la sua iniziale distribuzione attraverso download a libera offerta è destinato a sparigliare le carte della distribuzione musicale.

Ma anche l’opera che ripresenta un gruppo capace ancora di stupire per le sue capacità compositive, per la grande lungimiranza dello sviluppo ritmico, per il suo fascino dall’incedere frammentario e per la sorprendente scioltezza con la quale riesce ad aprire e chiudere visioni di posti lontani e immaginari.

I Radiohead sono la band fuori dal contesto, lontana dagli stereotipi; sono il gruppo che si innalza ad esempio, uno dei pochi ancora in grado di osare nella notte buia del pop attuale.

Roberto Paviglianiti


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