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Pink Floyd: discografia e recensione album per album

Fonti autorevoli parlano di un recente rifiuto (da parte di David Gilmour) di un’ingente somma di denaro per riunire i Pink Floyd sotto la stessa bandiera. Leggenda o verità? Sta di fatto che le ultime evoluzioni soliste di David e Roger non lasciano spazio ai sogni di reunion degli ammiratori della band inglese; ripercorriamo quindi – con un filo di nostalgia – i passi che hanno portato i Pink Floyd nella storia della musica d’ogni tempo attraverso quattordici piccole diapositive, una per ogni album realizzato in studio dal 1967 al 1994. Un periodo che ha conosciuto gloria e polvere, vittorie e inesorabili ripiegamenti, in un vortice d’emozioni avvolte in tanta, tantissima buona musica.

THE PIPER AT THE GATES OF DAWN (1967): Esordio dei Pink Floyd

Considerato uno dei manifesti assoluti dell’intera psichedelia inglese, “The Piper at the Gates of Dawn” è l’unico album dei Pink Floyd concepito dalla mente di Syd Barrett. Fondatore della band, appassionato di pittura e sperimentalismo di vario genere, Syd disegna il suo personalissimo quadro musicale attraverso undici tracce colorate e distorte, rumorose e fiabesche.

Composizioni irregolari che si allontanano dalla forma canzone e riescono a dar vita – su di u/data/musicyes/pink.jpgno sfondo sonoro spesso distorto e dissonante – a un genere e uno stile inconfondibili. Tracce come Astronomy Dominé e Interstellar Overdrive sono tutt’oggi dei classici dell’intera saga pinkfloydiana. Assoluto.

A SAURCEFUL OF SECRETS (1968), l'addio a Syd Barret

Orfani del loro genio creatore – estromesso dalla band per problemi legati all’assunzione di allucinogeni -, i Pink Floyd accolgono in sostituzione del pazzo diamante il chitarrista David Gilmour e nel frattempo realizzano il loro secondo lavoro sulla lunga distanza.

“Saucerful of Secrets” rappresenta uno snodo fondamentale della carriera della band perché, se da una parte ci si aggrappa agli ultimi scampoli prodotti da Barrett (Jugband Blues), dall’altra si cercano strade di composizione collettiva (Saucerful of Secrets) e si lascia molto spazio all’intraprendenza di Roger Waters (Set the Controls for the Heart of the Sun). Disco ovviamente contraddittorio e che soffre dell’inevitabile paragone col suo illustre predecessore.

MORE (1969) la prima colonna sonora

I Pink Floyd vogliono unire il loro nome al mondo del cinema, e lo fanno producendo la colonna sonora del film di Barbet Schroeder “More”, pellicola che narra delle erranti vicende di due figli dei fiori sull’isola di Ibiza. Nell’insieme, si tratta di una buonissima raccolta di canzoni intime e solari, che segnano un’inversione di tendenza rispetto agli approcci elettrici e distorti degli esordi.

Sono due in particolar modo gli episodi che vanno sottolineati in quest’opera: la fluttuante Green is the Colour e l’iridescente Cymbaline. Brani fortemente legati allo svolgimento filmico, ma che - con il loro incedere sognante e sospeso - diventano con facilità dei classici nel live-set floydiano del periodo.

UMMAGUMMA (1969)

Il doppio album “Ummagumma” è sicuramente uno dei dischi più amati dai fan pinkfloydiani, soprattutto perché include l’unico live ufficiale del periodo iniziale della band. Il primo vinile contiene le registrazioni dal vivo effettuate in quel di Manchester e Birmingham nel ‘69, e evidenzia – grazie ai molteplici concerti tenuti durante l’anno – i grandissimi progressi tecnici e compositivi compiuti in quel periodo.

I pezzi – rispetto agli originali - sono notevolmente dilatati, assumono movenze sempre più misteriose e le molte sperimentazioni eseguite in concerto (compreso un formidabile light-show) avvolgono la band in un alone leggendario. Il secondo vinile racchiude quattro brani inediti, ognuno composto da uncomponente del gruppo ma con risultati alterni e non di grande rilevanza.

ATOM HEART MOTHER (1970), nuova linfa ai Pink Floyd

Nel 1970 la storia della band conosce un nuovo capitolo di vitale importanza: l’arduo avvicinamento alle partiture di musica classica. Grazie all’amicizia di Roger Waters con il compositore Ron Geesin viene creata una suite strumentale di oltre venti minuti, dove al fianco della band c’è una vera e propria orchestra sinfonica. Si tratta di un esperimento che rende evidente la grande intraprendenza dei Pink Floyd (in particolar modo di Waters, sempre più leader assoluto).

La suite è proposta dal vivo in varie occasioni e diventa la colonna portante dell’omonimo album del 1970. A completamento del disco ci sono un paio di brani di buon valore anche se non eccezionali come Fat Old Sun (firmata da Gilmour) e la ballata acustica If.

MEDDLE (1971)

L’anno seguente il gruppo bissa con successo la formula strutturale dell’album precedente; una suite e alcuni brani di riempimento. Echoes si distanzia notevolmente dal colto incedere di Atom Heart Mother, anche perché - per la sua composizione - i Floyd non sono affiancati da alcun elemento esterno. L’elaborazione del brano passa attraverso molte fasi di sperimentazione e muta notevolmente dalle sue prime versioni presentate dal vivo.

Quello di eseguire i brani prima di fronte al pubblico per poi inciderli divenne un’abitudine del gruppo e si rivelò un fattore determinante per la riuscita di buona parte dell’intera discografia. Tra i brani minori è sicuramente la cavalcata strumentale One of These Days il pezzo di maggior impatto.

OBSCURED BY CLOUDS (1972)

Seconda colonna sonora della band inglese, ancora per il regista Barbet Schroeder e il suo nuovo film: il contraddittorio “Le Vallée”. Le canzoni sono molto lontane dallo stile floyd che pian piano si stava delineando e rappresentano nel loro insieme – e senza ombra di dubbio – la pagina peggiore dell’intera discografia. Possiamo salvare (se non altro per la bella voce e gli assolo di Gilmour) Childhood’s End, un brano che a posteriori si può concettualmente definire come una linea di confine tra la giovinezza e la maturità quasi raggiunta dal gruppo.

THE DARK SIDE OF THE MOON (1973): l'apoteosi

Ci sono voluti circa nove mesi di lavoro in studio (e la solita lunga gestazione durante le esibizioni live del 1972) per portare al compimento l’album icona dei Pink Floyd, il disco perfetto, capace di unire i consensi di critica e pubblico; il lavoro corale che proietta il gruppo verso un successo inaudito e inaspettato. “The Dark Side of the Moon” è un’unica suite concettuale, basata sulle alienazioni della società contemporanea, un album che presenta molti elementi innovativi nella sfera floydiana, come l’uso del sintetizzatore VCS 3, l’introduzione - in alcuni brani - del sax di Dick Parry e la partecipazione di una vocalist: la splendida vocalist Clare Torry in Great Gig in the Sky. La copertina, curata da Storm Thorgerson, entra di diritto nell’iconografia rock d’ogni tempo è sarà destinata – insieme al disco che contiene - a rimanere per sempre nella storia della musica.

WISH YOU WERE HERE (1975)

Dopo un breve periodo di riflessione il gruppo continua a cavalcare l’onda del successo mondiale dando alle stampe un altro album leggendario. “Wish You Were Here”, oltre a contenere l’omonimo brano, si basa sulla splendida suite Shine On You Crazy Diamond dedicata a Syd Barrett e alle sue introspezioni mentali.

Nata l’anno precedente come unico movimento, viene arricchita, dilatata e divisa in due parti per la realizzazione del disco. Ancora concetti molto cari ai Floyd (il rapporto con i discografici, le alienazioni della vita moderna) sono al centro della composizione dei brani, la musica è più curata nei dettagli e risente positivamente dell’ottima vena interpretativa di Gilmour; il suo tocco chitarristico è ormai un segno di riconoscimento inequivocabile.

ANIMALS (1977) una nuova ondata musicale

Sono gli anni della nuova e rivoluzionaria ondata del punk, i grandi gruppi annaspano in favore delle band emergenti e del loro approccio fulmineo. I Pink Floyd producono un album più ruvido e dal suono maggiormente aggressivo rispetto ai precedenti: “Animals”. Il disco prende vita grazie alle nuove versioni di alcuni brani proposti nella leggendaria tournee britannica del 1974; ecco quindi che Raving and Drooling e Gotta be Crazy diventano Sheep e Dogs, due mini-suite alle quali vengono aggiunte delle nuove canzoni per la realizzazione del disco. La vena creativa si sta man mano esaurendo e la band è stremata dai lunghi tour e dalla vita massacrante imposta dallo star system. L’ultimo show dell’anno è caratterizzato dall’episodio che vede Waters sputare contro gli spettatori delle prime file dello Stadio Olimpico di Montreal: è l’inizio della fine.

THE WALL (1979): il capolavoro di Waters

In assoluto il vero capolavoro di Roger Waters, ormai sempre più leader della band e capace di imporre le sue idee e i suoi metodi di composizione. Un concept album – a tratti autobiografico – completamente scritto e diretto da Waters, il quale propone, nella sua narrazione, episodi d’ordinaria alienazione della vita dell’individuo, il quale si isola fino a ritrovarsi circondato in un muro idealistico. L’album ha un suono freddo, diretto, tagliente e che non lascia spazio ad inutili abbellimenti sia dal punto di vista armonico che virtuosistico.

Grazie a “The Wall” i Pink Floyd sono nuovamente in cima al Mondo. Il singolo Another brick in the Wall diventa un vero e proprio inno, e ad altri brani coinvolgenti come Run Like Hell e Comfortably Numb entrano nella visione ideale dell’universo pinkfloydiano. Da lì a poco l’ambiziosa opera watersiana verrà eseguita faticosamente dal vivo (per via degli sfarzosi allestimenti scenici) e ne verrà fatto un film diretto dal regista inglese Alan Parker e interpretato da un incredibile Bob Geldof.

THE FINAL CUT (1983)

I Pink Floyd –di fatto - non esistono più. Questo perché Waters continua nella usa egocentrica visione di ogni cosa e il suo regime dittatoriali imposto agli altri membri fa sì che la macchina perfetta costruita in tanti anni di lavoro si sgretoli nel breve volgere di qualche stagione. “The Final Cut” è un album dal titolo profetico, buio, lento, claustrofobico in ogni sua movenza e in ogni suo risvolto nasconde una sfaccettatura caratteriale di Roger. E’ l’ultimo lavoro dei Pink Floyd prima delle controversie legali che porteranno il leader lontano dal gruppo, inesorabilmente e per sempre.

A MOMENTARY LAPSE OF REASON (1987)

Malgrado le funeree profezie di Roger (“non riusciranno mai a farlo, non hanno le palle”) e dati per morti e sepolti da critica e pubblico, David Gilmour e Nick Mason realizzano il sogno che forse covavano da molto tempo: i Pink Floyd senza Waters.

La loro nuova creatura prende forma in “A Momentary Lapse of Reason” un album certamente non memorabile ma che ha il merito di rimettere in pista un gruppo che non aveva più nulla da dire e che invece rialza la testa in maniera decisissima, sorretto dal grande amore del pubblico e spinto dalla grande voglia di rivalsa. Wright si unisce ai vecchi compagni durante le registrazioni cosicché il lavoro assume tutta la necessaria autenticità per essere considerato all’altezza di un album targato “Pink Floyd”. Il tour promozionale registra ovunque il sold-out. Il successo è planetario.

DIVISION BELL (1994), il capitolo finale

Dopo essersi nuovamente impossessati della loro identità, i Pink Floyd - capitanati dal nuovo leader David Gilmour - realizzano quello che tutt’oggi è il loro ultimo lavoro in studio: “The Division Bell”. Rispetto al disco precedente il suono è più legato alle sonorità classiche della band, ci sono più sfumature timbriche, maggior cura dei testi e degli arrangiamenti, cosicché riesce ad imporsi con sufficiente qualità sotto ogni aspetto. Il successo continua a sorridere a Gilmour e soci e, anche se ifasti dei decenni d’oro sono ormai un ricordo lontano, la band si mantiene su un ottimo standard qualitativo grazie soprattutto agli show dal vivo che riscuotono consensi e approvazioni ovunque. Shine on.


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